La parola "chimica" fa ribrezzo a molti già solo a pronunciarla, eppure è la Chimica la base della vita, del mondo, dell'aria che respiriamo, dell'acqua che beviamo. E allora chiediamo al nostro esperto in materia di illuminarci e farci capire qualcosa che fino ad oggi abbiamo per lo più idealizzato come nocivo, ostico, misterioso.
Lo chiediamo a Pellegrino Conte, Professore Ordinario Chimica Agraria presso l’Università degli Studi di Palermo.
A proposito dell'acqua, c'è una reale differenza tra l'acqua del rubinetto e quella in bottiglia?
No. L’acqua di rubinetto è buona quanto quella in bottiglia. Anzi si può dire che la prima è soggetta a controlli di qualità chimico-biologica molto più frequenti rispetto a quelli cui sono soggette le acque imbottigliate. L’idea che le acque in bottiglia siano più buone dell’acqua di rubinetto è solo una indicazione che il marketing ha fatto e fa bene il proprio lavoro, ovvero convincere la gente della necessità di qualcosa di cui, in realtà, non c’è necessità. Ovviamente, quando dico che l’acqua di rubinetto è buona quanto quella in bottiglia mi riferisco a situazioni in cui non ci sono emergenze sanitarie in atto. Il controllo periodico e frequente delle acque che provengono dagli acquedotti comunali serve proprio a stabilire l’assenza di microorganismi patogeni che possono portare a conseguenze importanti in termini di salute pubblica. I sindaci sono responsabili penalmente dei controlli delle acque degli acquedotti e sono obbligati a impedire l’assunzione alimentare di acque contaminate. Le leggende metropolitane in merito alla qualità delle acque che provengono dagli acquedotti sono, appunto, delle leggende. Bisogna ricordare, però, che le amministrazioni pubbliche sono responsabili della qualità delle acque solo ed esclusivamente per i tratti di loro competenza. Mi spiego meglio. Quando costruiamo una abitazione, ci “allacciamo” all’acquedotto pubblico per rifornirci di acqua corrente. Ebbene, le amministrazioni sono responsabili della qualità delle acque solo fino all’allacciamento, ovvero solo fino al punto in cui l’acqua che proviene dall’acquedotto viene intercettata dai tubi che servono per l’approvvigionamento idrico della casa che abbiamo costruito. Se l’acqua che viene fuori dal rubinetto della mia cucina è contaminata, vuol dire che da qualche parte tra l’allacciamento e il rubinetto della cucina c’è un problema. Non è l’amministrazione pubblica che si deve preoccupare, ma sono io, privato cittadino, che devo provvedere alla risoluzione del problema.
Si dice che l'acqua del rubinetto contenga molto calcare e la gente teme che questo possa intaccare la salute delle persone proprio come intacca il funzionamento di lavatrici e lavastoviglie, ma come stanno davvero le cose?
Quello che nel linguaggio popolare viene indicato come “calcare” in realtà, in termini chimici, è la “durezza” dell’acqua. Questo termine si riferisce al contenuto di ioni calcio e magnesio presenti nell’acqua. Più elevata è la concentrazione dei predetti ioni, più “dura” è l’acqua. Al contrario, più bassa è la loro concentrazione, più l’acqua si dice “dolce”. Qual è l’effetto della durezza dell’acqua nella vita quotidiana? La risposta è semplice: nessuno. Tutt’al più gli ioni calcio e magnesio possono formare sali insolubili con alcuni tipi di saponi obbligando le persone a dover usare più prodotto per ottenere quello che si chiama “effetto pulito”. Le incrostazioni che si riscontrano nei soffioni delle docce, in alcune parti delle lavatrici o in alcuni elettrodomestici, come i ferri da stiro, che fanno uso di acqua per il loro funzionamento, sono dovute ad un meccanismo banale sotto l’aspetto chimico. In pratica, quando non asciughiamo per bene un elettrodomestico dopo l’uso, l’acqua residua evapora lasciando un sottile strato di carbonato misto di calcio e magnesio insolubile (il “calcare”, appunto) che si accumula nel tempo grazie all’uso prolungato dell’elettrodomestico che non viene asciugato. Questo residuo solido occlude i pori presenti nel ferro da stiro, nel soffione della doccia o nei filtri delle lavatrici portando a problemi nel loro funzionamento. Il “calcare” si scioglie molto bene in ambiente acido. Se si deve recuperare il soffione della doccia, o pulire un bollitore elettrico nel quale si è accumulato il carbonato misto di calcio e magnesio, basta usare un po’ di aceto ed il problema si risolve. Alla luce di tutto questo si comprende molto bene che nel nostro organismo la precipitazione del “calcare” non può avvenire. Innanzitutto perché i cosiddetti “calcoli” non sono fatti di “calcare”. Da un punto di vista chimico i calcoli che si accumulano nei reni sono costituiti da urato (semplicisticamente parlando è un derivato dell’acido urico), ossalato (ovvero un derivato dell’acido ossalico) e fosfato. In definitiva, le acque “dure” possono essere assunte senza particolari problemi. Magari il sapore può non piacere, ma questo è un fatto soggettivo che non influenza l’innocuità delle acque a fini alimentari.
Nei bar, per motivi di linea, si chiede spesso del dolcificante ma quando questo non è disponibile lo stesso barista ti propone lo zucchero di canna.
Ma è davvero una mossa corretta sul piano calorico?
Il termine “dolcificante” o “edulcorante” si riferisce ad ogni sostanza che è in grado di apportare il sapore “dolce” ad un alimento. Sotto questo aspetto, il barista che fornisce zucchero di canna non commette alcun errore chimico. Tuttavia, nel linguaggio comune è invalso l’uso di identificare il termine “zucchero” con il saccarosio ottenuto per estrazione e purificazione da barbabietola o canna da zucchero, mentre il termine “dolcificante” si riferisce a qualsiasi sostanza che non sia saccarosio puro. Alla luce di ciò, fornire zucchero di canna al posto di un dolcificante come inteso nel linguaggio non chimico è un errore. Lo zucchero di canna, che più correttamente dovrebbe essere indicato come zucchero grezzo o zucchero “scuro” (in inglese esso è brown sugar), non è altro che saccarosio la cui purificazione viene interrotta un momento prima di ottenere il prodotto completamente puro dal colore bianco. Lo zucchero grezzo è fatto da circa il 98% in peso di saccarosio e circa il 2% di melassa che è una miscela di sostanze organiche varie e sali minerali. Da tutto ciò si capisce che a livello di consumo metabolico, una sacchettino di zucchero bianco (che contiene circa 5-6 g di prodotto) e un sacchettino di zucchero grezzo (che ne contiene all’incirca 6-7 g) sono del tutto equivalenti.
Anche sulle merendine viene proposto lo zucchero di canna come miglior sostituto di quello bianco. ha senso questa promozione?
Appare chiaro, alla luce di quanto ho detto, che le merendine che contengono zucchero grezzo non sono migliori in termini nutrizionali di quelle che contengono zucchero raffinato. Il linguaggio del marketing preme sui luoghi comuni e sull’ignoranza (in senso letterale) delle persone per far passare un messaggio sbagliato sotto l’aspetto chimico.
Si considera lo zucchero grezzo come più salutare di quello raffinato, è davvero così?
L’idea che lo zucchero grezzo sia più salutare di quello raffinato si basa sul fatto che effettivamente le sostanze organiche e i sali minerali che compongono la melassa costituiscono una fonte di nutrienti indispensabili per il nostro organismo. Tuttavia, l’utilità di un nutriente (così come la pericolosità di una sostanza tossica) non si basa solo sulla sua presenza in un alimento. Ciò che conta è anche la sua quantità, ovvero quanto di tale sostanza è presente nell’alimento considerato. Se facciamo i calcoli, come ho fatto per la stesura del mio libro “Frammenti di Chimica” (Scientia et Causa), viene che la quantità di ogni nutriente presente nella melassa costituisce mediamente solo l’1% della dose giornaliera di cui abbisogniamo. In altre parole, dovremmo mangiare 100 g di zucchero grezzo per assumere una dose media di un qualsiasi nutriente che copre solo un centesimo di quanto realmente ci serve giornalmente. Se moltiplichiamo per 10, un chilogrammo di zucchero grezzo al giorno ci fornirebbe solo un decimo della quantità media giornaliera di un qualsiasi nutriente. Quanti di noi mangiano un chilogrammo di zucchero al giorno? Non è forse meglio assumere i nutrienti che ci servono attraverso una alimentazione bilanciata in cui l’ammontare di zucchero è ridotto solo al minimo indispensabile? Voglio ricordare che secondo l’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) noi dovremmo assumere, per una corretta alimentazione, una quantità di zuccheri totali (quindi non solo quelli dei dolci e del caffè, ma tutti, inclusi quelli presenti nei vari alimenti che consumiamo tutti i giorni) tale da fornire una quantità di energia termica inferiore al 10% di quella che ci serve quotidianamente. In altre parole, un individuo del peso di 80 kg che necessita di circa 2000 kCal/d può assumere solo un paio di bustine di zucchero grezzo al giorno. È facile capire, quindi, che lo zucchero grezzo (tanto osannato dai salutisti di mezzo mondo che, evidentemente, non hanno ben chiaro il significato di metabolismo e hanno conoscenze nulle di biochimica) non è migliore di quello raffinato.
Grazie Pellegrino Conte! Al prossimo "A tu per tu" su C1V News!
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